Di fronte a una platea silenziosa e partecipe, si è alzato il sipario del Teatro Trastevere per lo spettacolo “Giovanni e Paolo”, un’opera intensa e profondamente umana, portata in scena dalla Compagnia ENTER fino al 25 maggio, in coincidenza con l’anniversario della strage di Capaci.
Il 23 maggio non è una data come le altre. In quel giorno, nel 1992, la mafia uccideva Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta. Lo spettacolo, scritto da Alessandra Camassa – già allieva di Paolo Borsellino e oggi presidente del Tribunale di Trapani – e con un prologo di Francesco Sotgiu, è un omaggio vivo e vibrante a Falcone e Borsellino, ma anche una riflessione amara e lucida sul senso dello Stato e della giustizia in Italia.
Lo spettacolo si apre con i narratori che accompagnano lo spettatore in un viaggio nel tempo, molto prima della nascita dei due magistrati. La narrazione parte dai genitori di Borsellino, farmacisti generosi che spesso non si facevano pagare, e prosegue con i ricordi della guerra e delle famiglie sfollate: i Falcone a Sferracavallo e Corleone, i Borsellino altrove, entrambi a Palermo, tra le macerie della guerra e i germogli di una nuova epoca.
Uno degli aspetti più toccanti – sottolineato anche dalle parole del giornalista presente – è il ritratto privato e intimo dei due giudici. Si parla del piccolo Falcone, volitivo e generoso, di un’infanzia dove i futuri mafiosi erano compagni di gioco. E quando Falcone li avrebbe poi interrogati, anni dopo, iniziava sempre chiedendo loro cosa facessero da bambini. Un gesto, forse, per richiamare l’umanità perduta.
A metà dello spettacolo, l’ingresso in scena di Giovanni e Paolo – interpretati con intensità da due attori – segna un cambio di ritmo e di tono. I due si ritrovano nell’aldilà, in un luogo simbolico chiamato “Casa degli Uomini Onesti”. Lì discutono, riflettono, si confrontano su ciò che è stato e su ciò che, drammaticamente, ancora non è. Un dialogo che non è solo finzione teatrale, ma una chiamata collettiva alla coscienza.
Il giornalista, profondamente colpito, ha descritto il momento del dialogo finale come un pugno allo stomaco e una carezza insieme: “Falcone e Borsellino non sono solo due eroi della legalità. In scena tornano uomini, amici, colleghi. Uomini forti ma anche fragili, delusi, stanchi. Ma mai vinti”.
La regia di Luca Milesi guida sapientemente la narrazione su un filo sottile tra biografia, cronaca e poesia. Le interpretazioni sono asciutte, sentite, senza retorica. La memoria non è mai monumentale, ma carne viva.
A distanza di più di trent’anni da quelle stragi, “Giovanni e Paolo” non è solo un doveroso tributo, ma uno specchio in cui la nostra società è chiamata a guardarsi. È uno spettacolo che commuove, scuote, e soprattutto interroga.
Cosa abbiamo fatto di quei sacrifici?
È la domanda che aleggia in sala. E forse è proprio questa la più grande forza dello spettacolo: non risponde, ma chiede. E nel chiedere, ci ricorda che ricordare non basta. Bisogna scegliere, ogni giorno, da che parte stare.



Marco Zucchi