Venerdì sera. In una delle sale tecnologicamente più avanzate di Roma, il nuovo attesissimo film di Tom Cruise va in scena in una IMAX. Ma a guardare la mappa dei posti, c’è qualcosa che non torna: le file centrali sono tutte libere. Quelle che normalmente andrebbero a ruba… perché?
Potrebbe non trattarsi di disinteresse o di un flop del film. Il motivo, piuttosto, potrebbe essere che anche i posti “centrali” in queste sale hi-tech si trovano ormai troppo vicini allo schermo. Troppo in basso, troppo ravvicinati, troppo invadenti per chi cerca un’esperienza confortevole. Il paradosso è evidente: più cresce la qualità dell’immagine, più gli spettatori si allontanano fisicamente. Non per mancanza di interesse, ma per istinto di sopravvivenza visiva.
È possibile, certo, che ci sia anche una forma di disaffezione più ampia nei confronti del cinema, in alcuni giorni, orari o per determinati titoli che non entusiasmano come un tempo. Ma quando a restare vuoti sono proprio i posti centrali — quelli che una volta si contendevano — la domanda si riapre: il problema è davvero la crisi del cinema o semplicemente l’architettura delle sale?
In un’epoca in cui l’offerta streaming si consuma comodamente dal divano, chi sceglie di andare in sala lo fa per vivere un’esperienza. Ma se quell’esperienza diventa fisicamente stancante, allora neppure la tecnologia può bastare.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: file centrali libere, file in fondo affollate, spettatori che prima prenotano e poi rinunciano, pur di non passare due ore col collo piegato.
Forse è il momento di riconsiderare cosa rende davvero coinvolgente una sala cinematografica. La tecnologia è solo uno degli ingredienti. L’altro, quello più semplice, è la comodità.
Valentina Alvaro