«Donald Trump è e rimane l’uomo dei dazi». David Boling, direttore del Commercio con Giappone e Asia di Eurasia Group, commenta l’ondivaga gestione delle politiche economiche portata avanti dal presidente americano durante i primi giorni del suo secondo mandato.
La recente volatilità del mercato e le previsioni che i dazi possano stimolare l’inflazione hanno spinto Trump a ricalibrare la propria politica tariffaria, ma lui rimane l’uomo dei dazi, quindi, non si tratta di una vera e propria inversione di rotta: punta ancora a rimodellare radicalmente la politica commerciale statunitense. Il suo esperimento economico è appena iniziato.
In realtà le politiche economiche adottate da Donald Trump possono portare a uno scenario di recessione generale, rischio che molti economisti stanno evidenziando. La politica tariffaria di Trump è una grande scommessa a causa dei potenziali effetti negativi sull’economia statunitense.
Uno studio pubblicato dalla CNBC ha smentito le proiezioni di Trump sul reshoring, evidenziando i rischi di un raddoppio dei costi e dei prezzi dei prodotti e la marginalità dell’impatto sull’occupazione.
Molti economisti si chiedono se i dazi di Trump riporteranno il settore manifatturiero negli Stati Uniti, ma gli studi economici non muteranno la risoluzione del presidente statunitense. Ha mantenuto le sue opinioni sui dazi fin dagli anni ’80 e la Cina è l’unica potenza ad essersi fermamente opposta ai dazi annunciati dal presidente degli Stati Uniti. Entro il 2025 le relazioni tra Stati Uniti e Cina si incrineranno. A Washington, la Cina è vista come una minaccia sia militare che economica. Questa visione è diventata mainstream tra Democratici e Repubblicani e non cambierà tanto presto. Fa parte della strategia di Pechino: quando le relazioni tra Stati Uniti e Cina peggiorano, quest’ultima di solito cerca di migliorare le relazioni con i suoi vicini, che, tuttavia, sono abituati a questo tipo di approccio. Probabilmente non avrà grandi effetti. Questo perché, sebbene i Paesi del Sud-Est asiatico siano scontenti dei dazi statunitensi, desiderano comunque che gli Usa facciano da contrappeso all’aggressiva condotta militare della Cina nella regione.
Non vi sono stati praticamente progressi nei negoziati commerciali tra Stati Uniti e Ue, quindi è difficile essere ottimisti. Washington e Bruxelles cercano da tempo di risolvere annose controversie commerciali. I dazi sono solo l’inizio. Persistono molte altre questioni – come le tasse sui servizi digitali, gli standard e i sussidi – che le precedenti amministrazioni statunitensi hanno cercato di risolvere con l’Unione Europea, e tutti questi sforzi sono falliti. I risultati non sono promettenti. Trump ritiene di avere ricevuto dal popolo americano il mandato di cambiare le relazioni commerciali e le relazioni estere degli Stati Uniti con molti Paesi, indipendentemente dal fatto che siano alleati o nemici.
Un’inchiesta della Bbc sostiene che ben poco dei proclamati tagli di Doge sia riscontrabile nella realtà, ma questo paradossalmente appare quasi un dettaglio. Perché 243 di deficit in più non sono noccioline, è quasi l’uno per cento del prodotto lordo degli Stati Uniti. Il deficit viaggia dunque dritto verso il 7% del prodotto lordo a fine anno, sempre che una recessione non peggiori le cose. Non è colpa solo di Trump ma anche della finanza pubblica americana, alimentata anche dai mille modi in cui alla classe patrimonializzata del Paese si permette da decenni di pagare tasse minime, ma aggravata dai tagli fiscali di Trump stesso, passati e promessi per il futuro e anche quelli riservati per lo più ai ricchi.
Trump ha proposto nuovi tagli a programmi su educazione, salute, case popolari, centri di prevenzione delle malattie croniche e molto altro.