Viterbo, dove il gusto si fa racconto: un viaggio tra sapori e identità

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Una domenica d’inizio primavera, Viterbo si sveglia sotto un cielo lattiginoso, percorso da nubi dense e sferzato da un vento teso, quasi pungente. Ma appena varco il portale del magnifico complesso monumentale di Santa Maria in Gradi, è come entrare in un’altra dimensione: un luogo fuori dal tempo, dove l’aria si fa densa di calore umano e profumi antichi.

Oltre sessanta stand si snodano lungo i chiostri e le sale, portando in scena l’anima autentica dell’enogastronomia laziale. Nonostante la ricchezza dell’offerta, l’atmosfera conserva un’inattesa intimità. Gli espositori, veri artigiani del gusto, accolgono i visitatori non con slogan, ma con storie: storie di terra, di mani, di stagioni. È un rito di conoscenza, prima ancora che di assaggio. E così cedo anch’io ai richiami di nocciole e oli fragranti, che porto via come fossero reliquie di sapore.

Alle 13 mi inoltro nell’area museale, trasformata per l’occasione in un’arena del gusto, raccolta e suggestiva, dove prende vita “Un assaggio di assaggi – Un viaggio tra sapori e profumi”. A guidarci è la voce colta e appassionata dell’antropologa del cibo Francesca Rocchi, che subito ci invita a guardare oltre il piatto. Il cibo, ricorda, non è solo nutrimento: è storia, identità, appartenenza.

Sfilano sul palco i volti di chi il cibo lo crea, lo coltiva, lo trasforma. Accanto a loro, la chef Emanuela Crescienzi, Ambasciatrice italiana del peperoncino nel mondo, si muove con gesti misurati e sicuri. Prepara un piatto simbolico: grattini allo zafferano, una pasta semplice ma densa di significati. La materia prima proviene dalla società agricola “La mia pasta” dei fratelli Troiani, progetto virtuoso nato nel cuore del Reatino, che recupera grani antichi, privi di ibridazioni, per una pasta che è memoria contadina e sfida nutrizionale insieme.

Poi prende la parola Zafaran Cuore Rosso di Nepi, azienda che custodisce la rara arte della coltivazione dello zafferano puro. Le loro parole rivelano la poesia nascosta dietro il lavoro quotidiano: per ottenere un solo grammo di spezia occorrono circa 200 fiori. La differenza con lo zafferano da supermercato, adulterato da coloranti e aromi artificiali, è abissale. Qui si parla di verità, di pazienza, di rispetto per la natura. Ed è questa verità che si prepara a esplodere al palato.

Il piatto è servito, accompagnato da un calice fresco di bianco Casale del Giglio, eccellenza dell’Agropontino. L’aroma è sottile, ma profondo. Lo zafferano sprigiona tutta la sua eleganza: un gusto antico e raro, che accarezza la bocca e risveglia la memoria.

Alle 15:15 un nuovo capitolo si apre con l’arrivo dello chef Fabrizio Pagliaroni, ideatore e anima dell’osteria Buccia di Sabaudia. La sua è una dichiarazione d’intenti, quasi un manifesto gastronomico. In una terra abituata a offrire ai turisti piatti di mare, Pagliaroni guarda altrove: al bufalo, alla capra, alla pecora, creature rustiche e fiere che popolano l’Agropontino, e che egli eleva a protagonisti della sua cucina etica e radicale.

È una cucina senza compromessi e senza sprechi, che valorizza ogni fibra dell’animale, dalle carni alle ossa. Una cucina che racconta, che interroga, che sorprende. Il piatto proposto è un tocco d’audacia: gnocchetti con ragù di bufalo, serviti con un calice profondo di rosso Casa Mecocci e impreziositi da un sontuoso olio extravergine di Vetralla. L’assaggio è rivelazione, potente ma misurato.

Rifletto, trovare un gusto che non si conosce è come ritrovare un frammento di sé che si ignorava. E in quel momento, mi rendo conto che questo evento non è stato solo una celebrazione del gusto, ma un viaggio nella mia identità, nelle mie radici.

Pierpaolo Panico

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