L’omertà di Stato in nome dalla legge: “nulla saccio, nulla vidi, nulla sentii! Ma di che parli?”

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Una delle caratteristiche fondamentali della mafia, indipendentemente dalla sua denominazione, è l’omertà. Porre domande riguardo a un episodio di cronaca nera in una zona sotto controllo mafioso spesso induce l’interlocutore a rispondere con frasi del tipo: “non so nulla” oppure “ma che cosa sarebbe successo?”. È probabilmente su queste basi che si fondano oggi i rapporti tra il mondo dell’informazione e le forze dell’ordine nel nostro Paese democratico e costituzionale. Come mai? All’origine di questo nuovo atteggiamento da parte di una porzione dello Stato nei confronti degli operatori dell’informazione, e conseguentemente verso l’opinione pubblica, vi è la cosiddetta “riforma Cartabia”, secondo la quale la decisione su quali notizie debbano o meno essere rese pubbliche alla stampa è stata affidata alla discrezionalità dei capi delle procure della Repubblica. Alcune procure osservano scrupolosamente tali norme, mentre altre le eludono o addirittura le ignorano completamente. Si tratta di un ossimoro legislativo che trova il suo contraltare nella madre di tutte le leggi e norme, ovvero la Costituzione della Repubblica Italiana. La Carta Costituzionale, redatta dai Padri Costituenti, all’articolo 21 afferma chiaramente: “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. E invece? Nel caso in cui vi siano sparatorie per strada, le forze dell’ordine sono vincolate al silenzio nel fornire informazioni basilari quali dati anagrafici, dettagli sulla dinamica generica o l’orario del fatto accaduto. Che mortificazione per lo sviluppo di un Paese che intende rivestire i panni di una democrazia matura. Che mortificazione per i cittadini privati del diritto fondamentale di essere informati su ciò che accade nel proprio territorio. Infine, che mortificazione per la dignità professionale dei cosiddetti “pappagalli di Stato”, costretti a ripetere meccanicamente quanto loro viene imposto comunicare. Eppure lo stesso dettato costituzionale stabilisce testualmente: “Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume”. La domanda spontanea è quindi una sola: cosa vi sarebbe di illegale nel comunicare a un giornalista – il quale deve adempiere al suo diritto – dovere di informare – che: “nel comune di Sancripante questa mattina hanno sparato all’ultracentenario pregiudicato o incensurato Tizio con una clava da 6000 grammi e la vittima è stata ricoverata presso l’ospedale del Diavolo in prognosi riservata”? Come direbbero a Trastevere: “nun se po’ fa”. Perché una legge dello stesso Stato nato dai principi costituzionali lo proibisce espressamente, stabilendo chi abbia l’autorità nel fornire tali notizie; un solo uomo che, se interpellato da tutti gli operatori dell’informazione, andrebbe inevitabilmente in crisi. La riforma Cartabia avrebbe forse dovuto prendere come titolo il celebre saggio di Bruno Vespa: “Uomo solo al comando”. Tuttavia si tratta di informazioni che non compromettono lo svolgimento delle indagini né incidono sul loro esito; semplicemente avvenimenti quotidiani riportati dalla strada che i nuovi “omertosi di Stato”, conformemente alle disposizioni introdotte dalla riforma stessa, sono obbligati a non divulgare facendo finta di nulla. Forse però il legislatore prima e gli organi istituzionali preposti alla vigilanza costituzionale poi hanno dimenticato – auspicando tuttavia ne conoscano almeno il pensiero – quanto affermava Romolo il Grande, ultimo re di Roma: “non è la notizia e la sua diffusione ciò che deve destare preoccupazione bensì il fatto da cui essa ha origine”. Ma probabilmente la storia non è materia accessibile a tutti così come non lo sono il rispetto dei compiti, dei doveri e dei diritti.

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