L’Europa perde la battaglia delle batterie: un disastro strategico annunciato

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Il settore delle batterie: la nuova frontiera della sovranità nazionale

Mentre il mondo si muove inesorabilmente verso l’elettrificazione, le batterie sono diventate il nuovo petrolio del XXI secolo. Non si tratta più solo di alimentare smartphone o laptop, ma di controllare settori strategici fondamentali per la sicurezza e l’indipendenza di una nazione. Nel settore civile, le batterie determinano il futuro della mobilità: chi controlla la tecnologia delle batterie per veicoli elettrici controlla l’industria automobilistica globale, un settore che vale trilioni di dollari e milioni di posti di lavoro.

Ma è nel settore militare che l’importanza strategica delle batterie emerge con tutta la sua drammaticità. Dai droni alle armi autonome, dai sistemi di comunicazione agli equipaggiamenti per soldati, l’esercito moderno dipende sempre più da batterie ad alta efficienza. Chi non ha accesso a questa tecnologia si trova inevitabilmente in posizione di svantaggio tattico e strategico. I conflitti in Ucraina e nel Mar Rosso hanno dimostrato quanto sia cruciale l’autonomia energetica dei sistemi d’arma: una dipendenza dalle forniture estere in questo campo equivale a consegnare le chiavi della propria sicurezza nazionale a potenze straniere.

Il crollo europeo: da giganti promessi a giganti di carta

La storia recente di Britishvolt e Northvolt racconta meglio di qualsiasi analisi economica il disastro strategico europeo nel settore delle batterie. Britishvolt, fondata nel 2019 dall’ex banchiere svedese Orral Nadjari, doveva rappresentare la risposta britannica al dominio cinese nelle batterie. Con una promessa di investimento da 3,8 miliardi di sterline e il supporto iniziale del governo Johnson per 100 milioni, l’azienda sembrava destinata a diventare il campione nazionale che il Regno Unito aspettava.

Invece, nel 2023, Britishvolt è crollata miseramente. Nadjari, ora rifugiatosi negli Emirati Arabi dove sta tentando di ricostruire il suo impero delle batterie, punta il dito contro la miopia politica britannica: “La storia di Britishvolt racconta dell’intensa rivalità tra Downing Street 10 e 11”, riferendosi al conflitto tra il primo ministro Johnson e il cancelliere Sunak. Mentre Johnson prometteva sostegno pubblico, Sunak sabotava il progetto dai corridoi del Tesoro. Sei mesi di ritardi burocratici in un momento critico per il finanziamento hanno condannato l’azienda proprio quando i tassi di interesse stavano salendo alle stelle, rendendo impossibile trovare capitali privati.

Il destino di Northvolt è ancora più emblematico del fallimento europeo. Considerata fino a poco tempo fa la migliore candidata europea a diventare un campione domestico delle batterie, l’azienda svedese ha raccolto 15 miliardi di euro in debiti e capitali, con Volkswagen e Goldman Sachs tra i principali azionisti. Fondata nel 2015, Northvolt rappresentava la speranza di un’Europa finalmente capace di competere con i colossi cinesi e americani.

Eppure, anche questa storia si è conclusa con un fallimento. Nel marzo 2024, Northvolt è stata dichiarata fallita, incapace di trovare i finanziamenti necessari per continuare le operazioni. Il colpo di grazia è arrivato con l’acquisizione dei suoi asset da parte di Lyten, una startup americana della California specializzata in batterie litio-zolfo per droni e applicazioni militari. Persino la vice primo ministro svedese Ebba Busch ha dovuto vestire i panni dell’ottimismo forzato, definendo la vendita a un’azienda straniera “una vittoria per la Svezia e per l’indipendenza energetica europea” – una dichiarazione che suona come un epitaffio per le ambizioni continentali.

La mentalità del secolo scorso in un mondo del futuro

Il fallimento europeo nel settore delle batterie non è casuale, ma il risultato di una mentalità industriale ancorata al passato. L’Europa, e l’Italia in particolare, rimane prigioniera di una visione industriale dominata dai tradizionali produttori automobilistici, aziende che per decenni hanno prosperato sui motori a combustione interna e che vedono nell’elettrificazione più una minaccia che un’opportunità.

Stellantis, Volkswagen, BMW: questi colossi hanno speso decenni a perfezionare tecnologie che stanno diventando obsolete, e la loro influenza sui governi europei ha sistematicamente rallentato la transizione verso l’elettrico. Invece di investire massicciamente nelle tecnologie del futuro, questi gruppi hanno preferito proteggere i propri investimenti passati, lobby che hanno convinto i politici a procedere con cautela, a non “bruciare le tappe”, a proteggere i posti di lavoro tradizionali.

Il risultato è che mentre la Cina investiva centinaia di miliardi nelle batterie e gli Stati Uniti lanciavano piani industriali da trilioni di dollari, l’Europa discuteva ancora di target per il 2035 e di transizioni graduali. La Germania, cuore industriale del continente, ha continuato a puntare sul diesel “pulito” fino a quando lo scandalo Volkswagen non ha reso evidente la bancarotta morale e tecnologica di questo approccio.

L’Italia rappresenta il caso più drammatico di questa miopia strategica. Paese che ha inventato l’Olivetti e che aveva tutte le competenze per diventare leader nelle tecnologie digitali, ha preferito concentrarsi sulla difesa di settori tradizionali come la moda e l’alimentare. Lodevoli, certo, ma insufficienti per garantire l’indipendenza strategica in un mondo sempre più elettrificato.

La via d’uscita: investimenti massicci e visione a lungo termine

Non tutto è perduto, ma il tempo stringe. L’Europa può ancora recuperare terreno nel settore delle batterie, ma servono misure drastiche e immediate. Prima di tutto, è necessario un piano industriale europeo coordinato che preveda investimenti pubblici massicci: non i 100 milioni promessi a Britishvolt, ma centinaia di miliardi come hanno fatto Stati Uniti e Cina.

Il modello da seguire è quello dell’Inflation Reduction Act americano: sussidi diretti alle aziende che producono batterie in territorio nazionale, crediti d’imposta per l’intera filiera produttiva, investimenti massicci in ricerca e sviluppo. L’Europa deve smettere di pensare in termini di aiuti di stato e iniziare a ragionare in termini di sicurezza nazionale.

Serve inoltre una rottura netta con la logica del libero mercato assoluto. Come ha giustamente osservato Nadjari, i paesi del Golfo hanno il vantaggio di non essere vincolati dai cicli elettorali: quando decidono di implementare una politica, quella politica non viene smantellata dal governo successivo. L’Europa deve trovare meccanismi istituzionali che garantiscano continuità strategica oltre i cambi di governo.

Gli investitori privati europei, dal canto loro, devono smetterla di cercare solo rendimenti a breve termine. Fondi sovrani, banche pubbliche di investimento e grandi gruppi industriali devono accettare di investire in settori strategici anche quando la redditività immediata non è garantita. È una questione di sopravvivenza economica e geopolitica.

L’Italia: il grande assente nella partita del secolo

E l’Italia? Il nostro paese brilla per la sua totale assenza da questa discussione cruciale. Mentre Germania e Francia almeno tentano di elaborare strategie industriali per il settore delle batterie, l’Italia sembra aver deciso di non partecipare nemmeno alla gara. Nessuna azienda italiana di rilievo nel settore, nessun piano industriale governativo degno di questo nome, nessun investimento significativo in ricerca e sviluppo.

È il trionfo della mentalità del “piccolo è bello” in un mondo dove solo i giganti sopravvivono. Mentre la Cina costruisce gigafactory che coprono chilometri quadrati e gli Stati Uniti investono trilioni nelle tecnologie del futuro, l’Italia si culla nell’illusione che il Made in Italy tradizionale possa bastare per garantire prosperità e indipendenza.

Il risultato è che tra vent’anni, quando le nostre città saranno piene di auto elettriche cinesi alimentate da batterie cinesi, quando i nostri droni militari dipenderanno da tecnologie americane, quando la nostra rete elettrica sarà ostaggio delle forniture asiatiche, qualcuno si chiederà come mai non abbiamo visto arrivare il treno del futuro.

La verità è che il treno l’abbiamo visto arrivare benissimo. Abbiamo solo deciso di non salirci, preferendo rimanere alla stazione a discutere di quanto fosse bello il paesaggio di una volta.

Silvio Porcellana è un imprenditore digitale dal 1999. Nato ad Asti nel 1975, laureato in Economia cum laude alla Sapienza ha lavorato tra Londra, Boston, l’Arizona e l’Italia sviluppando e lanciando startup e prodotti online. Scrive di economia, geopolitica digitale e tecnologia. Il suo sito personale è silvioporcellana.com e oggi è il responsabile tecnico di webitalysystem.it.

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