Il Massimario della Cassazione sul Protocollo Italia-Albania tra presupposti giuridici controversi e discrezionalità amministrativa.

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La Relazione del Massimario Civile della Cassazione sul Protocollo Italia-Albania: profili critici tra diritto costituzionale, internazionale e dell’Unione europea Il 18 giugno 2025 l’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione, Servizio Civile, ha redatto una relazione dedicata al Protocollo Italia-Albania in materia migratoria, ratificato con legge n. 14/2024 e successivamente modificato dal d.l. 28 marzo 2025, n. 37 (conv. in l. 23 maggio 2025, n. 75). Il documento costituisce una ricognizione articolata delle problematiche giuridiche sollevate dal nuovo sistema di esternalizzazione delle procedure di frontiera e protezione internazionale, introdotto in via bilaterale dall’esecutivo italiano. Si tratta, tecnicamente, di una “Relazione su novità normativa”, destinata a fornire ai consiglieri della Cassazione un quadro delle principali questioni interpretative e sistemiche derivanti dall’attuazione del protocollo. Non vincolante, ma certamente autorevole, essa assume rilievo particolare in quanto interviene su un modello normativo ancora privo di consolidata giurisprudenza, sollevando dubbi che appaiono idonei a prefigurare, nel medio termine, questioni di legittimità costituzionale e pregiudiziali comunitarie. Uno dei primi rilievi della dottrina – pienamente accolto dalla relazione – riguarda l’imprecisione soggettiva del termine “migranti” adottato nel Protocollo e nella legge di ratifica. L’assenza di una tipizzazione normativa determina una potenziale violazione dell’art. 3 Cost., per disparità di trattamento fra cittadini stranieri, nonché dell’art. 10, co. 2, per elusione della riserva relativa di legge in materia di condizione giuridica dello straniero. La selezione operata attraverso le SOP del Ministero dell’Interno, aventi natura amministrativa, non può surrogare il necessario fondamento legislativo richiesto dal dettato costituzionale. Si pone altresì un problema di compatibilità con l’art. 13 Cost., in quanto le SOP incidono sulla libertà personale dei soggetti senza base legale formalizzata. Particolarmente delicato è il profilo relativo al diritto d’asilo (art. 10, co. 3, Cost.), che – nella ricostruzione prevalente – presuppone l’accesso al territorio della Repubblica per essere effettivamente esercitato. Il sistema delineato dal Protocollo, invece, crea un filtro extraterritoriale che impedisce al migrante di accedere fisicamente in Italia prima della valutazione della propria domanda. Tale modello si pone in contrasto sia con la giurisprudenza costituzionale sul principio di effettività del diritto di asilo, sia con la direttiva 2013/32/UE, che disciplina le procedure comuni di esame della domanda all’interno del territorio o alla frontiera dello Stato membro. Altro profilo di potenziale incostituzionalità è connesso alla disciplina del trattenimento. La possibilità che un migrante, una volta decaduto il titolo giustificativo della sua detenzione, non possa essere immediatamente rilasciato – in quanto impossibilitato a rimanere in Albania e non ancora trasferito in Italia – configura un rischio concreto di privazione arbitraria della libertà personale, in violazione dell’art. 13 Cost. e dell’art. 5 CEDU. La relazione segnala criticamente anche le modalità con cui è assicurato il diritto di difesa (art. 24 Cost.), fortemente limitato per le persone trattenute nei centri albanesi. L’accesso all’assistenza legale è affidato alla discrezionalità del responsabile del centro, con forti criticità anche nella fase di rilascio della procura e di comunicazione con il difensore. La fissazione di un termine unico di 7 giorni per proporre ricorso contro tutte le decisioni assunte nei centri di Gjader è ritenuta idonea a incidere sul diritto a un ricorso effettivo, tutelato anche dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Un ampio segmento della relazione è dedicato alla valutazione della compatibilità tra il Protocollo e il diritto dell’Unione europea. La dottrina risulta divisa: se da un lato si riconosce che la giurisdizione italiana (incluso il diritto UE) può astrattamente estendersi extraterritorialmente, dall’altro si segnala come il sistema delineato dal Protocollo introduca deroghe sostanziali – in particolare la detenzione generalizzata e l’assenza di misure alternative – che violano le direttive 2013/33/UE (accoglienza), 2013/32/UE (procedure) e 2008/115/CE (rimpatri). In particolare, la relazione sottolinea come l’applicabilità “in quanto compatibili” della disciplina UE nei centri albanesi sia espressa in termini tali da suggerire una deroga e non un recepimento pieno. Ciò espone l’intero sistema al rischio di “incompatibilità invertita” rispetto all’art. 117, co. 1, Cost. In definitiva, la relazione del Massimario offre una mappa accurata dei punti di frizione tra la normativa attuativa del Protocollo Italia-Albania e le fonti sovraordinate dell’ordinamento. Pur non formulando un giudizio conclusivo, essa costruisce un solido apparato teorico-giuridico che potrebbe orientare futuri interventi giurisprudenziali – inclusi eventuali rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia UE o giudizi di legittimità costituzionale. L’impressione che se ne ricava è chiara: l’impianto normativo che sostiene i centri extraterritoriali in Albania presenta è ampiamente discrezionale e si basa su presupposti normativi labili.

Paolo Iafrate

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