Il 10 maggio 2025, sul podio dell’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, James Conlon ha orchestrato un confronto rivelatore tra due epoche, due linguaggi e due forme di resistenza: quella idealistica e universale di Beethoven e quella ambigua e dolente di Šostakovič. Due Sinfonie n. 5, due drammi musicali e umani, separati da oltre un secolo, ma vicini per tensione morale, forma archetipica e capacità di inscrivere nella musica una lotta: contro il destino, contro il potere, contro il silenzio.
“Il destino bussa alla porta.” Così, secondo Anton Schindler, Beethoven avrebbe spiegato il celebre motivo iniziale della sua Sinfonia n. 5 in do minore, op. 67. Un’immagine forse abusata, ma ancora capace di restituire il nucleo emotivo di un capolavoro diventato simbolo dell’eroismo musicale. Per Beethoven, il destino non è solo un concetto filosofico: è la malattia, la solitudine, la sordità che incombe, è l’ottusità dei colleghi, l’arroganza dell’aristocrazia, l’indifferenza dei teatri.
La Quinta nasce in questo clima: è musica come risposta alla disfatta, come atto di resistenza morale, è Beethoven che trasforma la sofferenza in volontà creativa. A trent’anni, Beethoven era ancora un compositore nella norma. La Prima Sinfonia guarda al passato, nello stile di Haydn e nel desiderio di onorare i suoi vecchi protettori, ma la diagnosi di sordità cambia tutto. A partire da quel momento, Beethoven non cerca più di integrarsi, sceglie di diventare un artista fuori dall’ordinario, complice il pensiero romantico nascente, la figura del compositore cambia radicalmente. Non è più un abile costruttore di musica, ma un portatore di verità. L’opera non è più un esercizio di stile, ma una chiamata del destino.
La Quinta rispetta la struttura sinfonica in quattro movimenti, ma con una tensione interna del tutto nuova, il celebre incipit – tre brevi e una lunga – non è un tema, ma un gesto, un codice. È un ritmo che non appartiene né alla danza né alla marcia, è un’idea astratta diventata suono. La Quinta è un viaggio drammatico che parte dal buio e si slancia verso la luce. Per questo non stupisce che la Quinta abbia un “alter ego” nel suo opposto caratteriale: la Sesta Sinfonia, la “Pastorale”, composta negli stessi anni. Là dove la Quinta affronta il destino a viso aperto, la Pastorale canta la pace della Natura. Due lati di una stessa anima. La Quinta è questo: non solo una sinfonia, ma un atto di fede nell’umanità, un grido contro il caos, un passo oltre il dolore, verso una luce conquistata con la forza dell’arte
Ogni esecuzione della Quinta sinfonia di Beethoven, se guidata con profondità, ci restituisce l’opera non come un pezzo celebrativo, ma come un enigma. La lettura di Conlon ha evitato il trionfalismo, optando per una narrazione lucida e serrata, mettendo in risalto l’urgenza strutturale della partitura: la forza del motivo iniziale, la concentrazione delle cellule tematiche, la tensione drammatica che porta alla catarsi.
Ben più complessa e ambivalente è la Sinfonia n. 5 in re minore di Šostakovič, composta nel 1937, nel pieno delle purghe staliniane. Dopo la condanna pubblica della Lady Macbeth del distretto di Mcensk, il compositore era sotto osservazione e la Quinta fu presentata come una “risposta creativa a una critica giusta”.
Ma cosa cela davvero questa musica? Conlon e l’Orchestra dell’Opera hanno restituito pienamente la stratificazione emotiva e politica dell’opera: il primo movimento sembrava trattenere il fiato, pieno di tensione; lo Scherzo era come una danza strana e un po’ inquietante; il Largo ha toccato corde molto profonde. E il finale, anche se a prima vista sembrava trionfante, lasciava comunque un senso di disagio. È vittoria, o finzione? Conlon ha mantenuto questa domanda aperta, evitando ogni retorica.
Dopo essere stato bollato come “formalista” e “caotico” dalla Pravda per l’opera “Lady Macbeth del distretto di Mcensk”, Šostakovič rischiava la vita. Con la Quinta cercò di salvarsi ma senza rinunciare a dire la verità, dichiarò che la Sinfonia celebrava “la realizzazione della personalità umana” e “la gioia di vivere”. Il regime applaudì, leggendo nel finale una marcia vittoriosa del socialismo, ma in realtà, quel finale è un giubilo forzato, una parodia grottesca della retorica ufficiale.
All’epoca, il pubblico di Leningrado capì perfettamente, pianse, applaudì, tremò. Non era solo musica: era un grido nascosto, una denuncia protetta da una forma perfetta. Come Mahler, Šostakovič racconta l’inevitabilità della tragedia, ma lo fa in modo più pericoloso, sotto gli occhi del potere e con un coraggio estremo, ci mostra come l’arte possa resistere, anche mascherata, anche ferita. La Quinta di Šostakovič è un capolavoro tragico, non un compromesso, ma un atto di sopravvivenza lucido e ribelle e ancora oggi, ci insegna che la musica può dire la verità anche quando sembra gridare l’opposto.
Nel programma di sala del Teatro dell’Opera, Conlon risponde direttamente a un interrogativo centrale per ogni interprete occidentale: “Si può parlare di un’interpretazione “americana” della musica di Šostakovič?” “Come prima cosa, credo che la musica classica sia fondamentalmente universale. Il motivo per cui usiamo il termine “classica” per definirla è che questa musica si colloca in una sfera spirituale al di là delle limitazioni geografiche o temporali. In altre parole, la musica attraversa il tempo e lo spazio, e la sua genesi, trasmissione e ricezione preclude ogni caratteristica di tipo nazionale. Di conseguenza non credo in un’interpretazione “americana” della musica di Šostakovič, né di qualsiasi altro compositore. E aggiungerei che, per ognuno di noi, l’aggettivo che descrive la nostra nazionalità non è che un mero accidente del nostro luogo di nascita. Molti artisti sono eccezioni nel contesto della loro cultura di nascita. Il mio intento, per Šostakovič come per ogni altra musica, è di cercare di capire un determinato compositore nel contesto della sua propria cultura. E di comprendere, se possibile, in che modo quel compositore si collochi sia all’interno che all’esterno di quella cultura.”
Parole che riflettono una visione della musica come ponte tra epoche e culture, e che danno senso alla lettura intensa, rispettosa e mai ideologica offerta da Conlon. Nel programma di sala del Teatro dell’Opera, Conlon ha condiviso anche una riflessione cruciale sul rapporto tra ricerca filologica e sensibilità moderna, toccando il tema dell’early music e della possibilità, o impossibilità, di recuperare un presunto “vero suono” di Beethoven: “Apprezzo enormemente quello che hanno fatto i pionieri e i maestri della early music, la dedizione delle loro ricerche e gli straordinari risultati che hanno conseguito. Detto questo, non ritengo che la questione debba essere affrontata in maniera ideologica… Noi dobbiamo sempre cercare il suono di Beethoven, di Brahms, di Wagner, di Verdi, ma in pratica possiamo sapere molto poco di cosa potesse essere effettivamente il suono della loro musica, e per quanto riguarda il Settecento praticamente nulla. E se anche riuscissimo a scoprire come suonava la loro musica allora, oggi sarebbe impossibile da restituire perché sono cambiate le nostre orecchie a causa della modernità. Non solo è mutato il linguaggio armonico e musicale, ma si è completamente trasformato il paesaggio sonoro. Molti di loro non hanno mai sentito il rumore di un’automobile, di un aereo e forse neppure di un treno nel caso di Beethoven. Quindi rimango scettico sul tentativo di trovare il suono autentico di Beethoven, anche se reputo le ricerche della musica antica uno sforzo nobile e interessante. Penso che il nostro compito sia di restituire delle esecuzioni emotivamente e spiritualmente valide ma all’interno di una sensibilità contemporanea. Se Beethoven vivesse adesso, credo che si esprimerebbe con gli strumenti che avrebbe a disposizione oggi.”
Una posizione che riequilibra la tensione tra rispetto per la prassi storica e urgenza comunicativa contemporanea, confermando la visione di Conlon come interprete critico, consapevole e non dogmatico. Quella proposta da Conlon non è stata una semplice accoppiata di due grandi partiture, ma un confronto tra due visioni del mondo. Beethoven, l’artista libero che crede nella ragione come forza redentrice; Šostakovič, l’uomo del Novecento che maschera la tragedia sotto la forma. Due Sinfonie n. 5 che mostrano come la musica sinfonica, anche in epoche diverse, rimanga un luogo di resistenza, memoria e verità.
Figura di riferimento internazionale, James Conlon ha attraversato oltre cinquant’anni di storia musicale tra Stati Uniti ed Europa. Dal debutto con la New York Philharmonic nel 1974, ha diretto le più importanti orchestre e teatri d’opera del mondo, imponendosi come uno dei pochi direttori capaci di eccellere con pari autorevolezza nel repertorio sinfonico, operistico e corale.
Attualmente è Direttore Musicale dell’Opera di Los Angeles, dove ha diretto più spettacoli di qualsiasi altro nella storia della compagnia. Concluderà il mandato nel 2026, alla ventesima stagione, assumendo il titolo di Conductor Laureate. In passato è stato Direttore principale dell’Opéra di Parigi, Direttore Generale della città di Colonia, a capo sia dell’Orchestra Gürzenich che dell’Opera, nonché guida della Rotterdam Philharmonic e dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI di Torino. Ha inoltre lavorato al Ravinia Festival (sede estiva della Chicago Symphony) e con la Baltimore Symphony Orchestra. Al Metropolitan Opera ha diretto oltre 270 spettacoli dal 1976. Ma il suo ruolo va ben oltre la direzione musicale: è un convinto sostenitore dei compositori censurati dal nazismo, un divulgatore appassionato e un sostenitore della cultura come bene pubblico. Le sue affollate conferenze all’Opera di Los Angeles, che fondono musicologia, storia, letteratura e scienze sociali, rappresentano un esempio unico di didattica musicale rivolta al grande pubblico. Tra i suoi riconoscimenti: la Légion d’Honneur (2002), il titolo di Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana (2018) e la Croce d’Onore per la Scienza e l’Arte della Repubblica Austriaca (2023). Una carriera che unisce interpretazione, educazione e impegno civile in un unico, coerente percorso artistico.
Stagione 2024/2025
JAMES CONLON
Direttore James Conlon
LUDWIG VAN BEETHOVEN SINFONIA N. 5 in do minore, op. 67
DMITRIJ ŠOSTAKOVIČ SINFONIA N. 5 in re minore, op. 47
Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma
ph Dan Steinberg for LA Opera



Roberto Buono