Licenziati perché in odore di mafia

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Fumata bianca, quella di ieri, emersa dal “comignolo” della sala riunioni di viale Jacobini alla zona industriale, dove sé è riunito il Consiglio di Disciplina dell’Amtab, la società municipalizzata barese che gestisce il trasporto urbano su gomma e le aree di sosta della città. Licenziati il fratello e il nipote del boss che vengono licenziati e dovranno rimanere definitivamente a casa. Ieri, infatti, dopo l’aggiornamento della riunione del nuovo organo aziendale che si era riunito lo scorso 15 aprile ma che si era aggiornato per dar tempo ai nuovi componenti nominati di conoscere i fatti rispetto alle proposte di licenziamento di due dipendenti coinvolti nell’inchiesta “codice interno”, che il 27 febbraio del 2024 vide finire agli arresti 137 persone con accuse a vario titolo di associazione a delinquere finalizzata alla compravendita di voti aggravata dal metodo mafioso. Tra coloro che finirono alla sbarra, con l’accusa di aver imposto all’azienda l’assunzione, si pur a tempo determinato, di persone vicine, legate, contigue se non proprio affiliate al potente clan mafioso retto dal boss Savino Parisi, c’erano, anche, due dipendenti della società del comune di Bari, Massimo Parisi e Tommaso Lovreglio, rispettivamente fratello e nipote acquisito e del potente boss e capo clan mafioso del sodalizio di “Japigia”. Per questa ragione, l’azienda pubblica barese, retta dall’avvocato romano Luca D’Amore, che nella prima fase della vicenda era stato nominato dal tribunale di Bari, amministratore giudiziale, aveva proposto il licenziamento dei due parenti del boss coinvolti nell’inchiesta. I due, avvalendosi dei benefici di una vecchia norma riportata in un Regio Decreto del 1939, avevano fatto ricorso, contro la decisione che faceva perdere loro il posto di lavoro, al Consiglio di Disciplina aziendale, chiamato a esprimersi con parere obbligatorio anche se non vincolante. L’organismo aziendale composto da sette persone, tre rappresentanti sindacali, tre aziendali e un presidente nominato dalla Regione Puglia, si riunì a metà febbraio scorso, ma il quella occasione essendo i tre sindacalisti astenuti in attesa di conoscere le determinazioni della magistratura, due degli altri quattro componenti votarono per il licenziamento e altri due contro, arrivando ad una situazione di parità che determinò uno stallo decisionale. In seguito a ciò l’avvocato D’Amore, chiese e ottenne dalla Regione di poter sostituire i componenti non concordi al licenziamento, temendo che potessero aver subito pressioni dal clan o che quantomeno erano suggestionati dalla vicenda.  Il nuovo assetto dell’organismo di controllo e tutela dei lavoratori, nella sua nuova composizione, si è riunito ieri mattina poco dopo le dieci e dopo una riunione di circa tre ore, alle 13 ha stabilito con quattro voti favorevoli, quelli del presidente e dei tre membri aziendali, e tre astensioni dei tre rappresentati sindacali che non essendo competenti in una materia come quella penale di fattezza mafiosa, che esula dai soliti provvedimenti disciplinari che normalmente vengono contestati, hanno preferito non partecipare al voto in attesa delle determinazione della magistratura. Questa mattina l’ufficio del personale dell’azienda di mobilità urbana pubblica del capoluogo pugliese, dopo aver recepito l’assunto deliberativo del consiglio di disciplina aziendale provvederà a formalizzare e notificare ai due diretti interessati il provvedimento di licenziamento che per la verità già dall’indomani dell’esplosione dello scandalo erano stati raggiunti da una prima determinazione aziendale si sospensione dal lavoro e dalla corresponsione degli emolumenti. Provvedimento che, entro sei mesi, potrà essere impugnato dai due destinatari davanti al giudice del lavoro. In realtà, insieme questi due dipendenti licenziati, in seguito a quella inchiesta portata avanti dagli uomini della squadra mobile della questura di Bari, c’è ne rea anche un terzo, Michele De Tullio, meglio conosciuto in città e negli ambienti della mala con il nomignolo “sotto ghiaccio”, zio di Lovreglio il nipote del boss Savinuccio Parisi che non ha voluto ricorrere al giudizio della commissione di disciplina avendo raggiunto la soglia anagrafica dell’età pensionabile e, quindi, non interessato a rimanere in servizio.

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